Una grande prova d’attore quella di Benedetto Casillo, sulle tavole del palcoscenico del teatro San Ferdinando fino a domenica 18 maggio, con uno spettacolo, di cui è ideatore e protagonista, dal titolo “L’uomo dal fiore in bocca / Fiori di palco”: passi scelti nella vasta produzione di Luigi Pirandello Raffaele Viviani, Totò, Enzo Moscato, con la sapiente regia di Pierpaolo Sepe. Una produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Arteteca, Tradizione e turismo – Centro di Produzione Teatrale – Teatro Sannazaro. In scena con Benedetto Casillo gli attori Sara Lupoli e Vincenzo Castellone, scene di Francesco Ghisu, costumi di Rossella Oppedisano, coreografie di Sara Lupoli. Una performance riuscitissima, che ci ha restituito una nuova visione di Benedetto Casillo, noto ai più, dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, come cabarettista del duo i Sadici Piangenti in coppia con Renato Rutigliano, come attore di teatro e cinema made, uno dei volti più popolari, riconosciuti e riconoscibili della scena partenopea, che vanta interpretazioni di testi di Petito, Scarpetta, Eduardo, Ruccello, Moscato, e direzioni di registi che vanno da Luciano De Crescenzo a Alessandro Siani, da Ciro Ippolito a Carlo Vanzina a Mario Martone. Ma non solo, Casillo, 75 anni, ha anche delle eccezionali corde drammatiche e impegnate, che rende l’attore partenopeo un vero mattatore del teatro italiano. In Italia siamo abituati a settorializzare i nostri artisti, se si è comici non si può essere seri e tragici e viceversa; invece, il nostro Benedetto ha dato una mirabile prova, e non è la prima volta, del vero mestiere di attore, avere la duttilità e la versatilità di passare da un registro all’altro con naturalezza e disinvoltura. Nello spettacolo sono stati coinvolti un premio Nobel e tre mostri sacri della scena teatrale, tutti e quattro figli dello stesso Sud. Benedetto Casillo, figlio genuino di Napoli, attore dalla lunga e intensa carriera (da Petito a Scarpetta e poi a Beckett, Ruccello e Moscato) si avvicina a questi straordinari autori con umiltà e rispetto, per assimilarne la linfa e restituirla poi in scena con la sua cifra di interprete, fatta di sobrietà e misura. Un leggero alito napoletano lambisce il notturno paesaggio dall’Uomo dal fiore in bocca: l’accento del protagonista, qualche antico vocabolo viene proposto con affettuosa devozione per il dialetto. La scena rappresenta l’esterno di un caffè di una stazione ferroviaria, un binario l’attraversa in primo piano. Attorno ad esso, gelido spettatore, dissertano di vita e di morte i due protagonisti dell’atto pirandelliano. Lo stesso binario indirizza le rappresentazioni degli altri autori. L’unica certezza certa della vita è la morte; eppure, per l’uomo di oggi questo è l’ultimo dei pensieri. In questo mondo che freneticamente rimbalza da un’illusoria soddisfazione materiale all’altra la morte è un fastidioso inconveniente, un seccante contrattempo, una inaspettata perdita di tempo. La morte ha perso la sua sacralità…che poi è la stessa sacralità della vita. Dove c’è vita, c’è inevitabilmente la morte. La vita scorre da sempre all’ombra della morte. E ciò non è affatto una considerazione negativa. Tutto sta nel decidere come scegliere di vivere il tempo che ci è stato assegnato. L’intento dell’attore è quello di far riflettere sulla vita e sulla morte in un mondo così confuso e distratto, troppo distratto dai social, nel primo tempo è da solo in scena, ma la riempie totalmente, interpreta Totò, Viviani, Basile e Enzo Moscato, un rapporto che affondava anche nel comune amore per la devozione e la religiosità popolare, per la magia della lingua, nel secondo c’è l’adattamento dall'atto unico di Pirandello in compagnia di Sara Lupoli e Vincenzo Castellone. Ottima e di qualità la regia di Pierpaolo Sepe. “L’unica certezza certa della vita è la morte; eppure, per l’uomo di oggi questo è l’ultimo dei pensieri. In questo mondo che freneticamente rimbalza da un’illusoria soddisfazione materiale all’altra la morte è un fastidioso inconveniente, un seccante contrattempo, una inaspettata perdita di tempo. La morte ha perso la sua sacralità…che poi è la stessa sacralità della vita. Dove c’è vita, c’è inevitabilmente la morte. La vita scorre da sempre all’ombra della morte. E ciò non è affatto una considerazione negativa. Tutto sta nel decidere come scegliere di vivere il tempo che ci è stato assegnato. Beh, ci sarebbe poi lo spirito, l’anima, la fede, la vita eterna. Non è semplice. Ma restiamo nell’ambito terreno. Come finire? Abbiamo così tanto tempo; eppure, non siamo mai pronti. Come raggiungere il significato del nostro esistere? E poi, un giorno finisce. Si spegne la luce e si va lì dove chissà che troveremo. Saremo felici? Saremo in compagnia? Saremo? Uno spettacolo per celebrare il nostro ultimo viaggio. Accettare l’addio. Salutarsi con dolcezza e rammarico ma sorridere alla vita fino all’ultimo respiro. Abbiamo un tempo che è un’occasione. Un’occasione di comunione e di grazia. E allora che sia una festa! Che si ricordi, che si canti, confusi tra le lacrime e il ridere a crepapelle. Non dimenticare la voce, il profumo della pelle, quel modo di gesticolare così grazioso. E gli occhi, soprattutto gli occhi. Non dimenticarli mai. Come ti guardava e le cose che ti diceva guardandoti. Lavorare con Benedetto Casillo è una gioia. Bisogna lasciarlo libero di raccontare il suo modo di guardare la vita, il teatro. Bisogna arrendersi alla sua forza trascinante, al suo credo fedele, al valore che attribuisce alle cose. Dimenticare le convinzioni così noiose che alterano percorsi genuini e onesti e aprire il cuore al gesto puro e inimitabile dell’artista vero, nobile, popolare. Inarrestabile nel suo incedere. Semplicità come conquista. Luce sempre di onestà convincente e seduttiva. Quando rampollò nella mente di Benedetto la possibilità di questo spettacolo, non ero convinto si potesse costruire una sequenza capace di raggiungere il mio cuore. Mi sbagliavo” – si legge nelle note di regia di Pierpaolo Sepe. Si replica fino al 18 maggio.
Antonio D'Addio