Terzo appuntamento della rassegna promossa al Teatro Grande del Sito di Pompei dal Teatro Nazionale di Napoli, giunta alla sua ottava edizione, lo spettacolo schiera una straordinaria compagnia di interpreti capitanata da Sonia Bergamasco nel ruolo dell’eroina del titolo, Anna Bonaiuto nei panni della di lei madre Clitennestra, Roberto Latini in quelli del fratello Oreste, Silvia Ajelli in quelli della sorella Crisotemi. Completano il numeroso cast: le Corifee Bruna Rossi, Paola De Crescenzo, Giada Lorusso; Danilo Nigrelli nel ruolo del Pedagogo, Roberto Trifirò in quello di Egisto, Rosario Tedesco è Pilade; Simonetta Cartia (è Capo Coro); il Coro di Donne di Micene è composto da Clara Borghesi, Carlotta Ceci, Ludovica Garofani, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Arianna Martinelli, Francesca Sparacino, Francesca Totti, Siria Veronese Sandre (Accademia d’Arte del Dramma Antico). Scene e disegno luci di Gianni Carluccio; costumi di Daniela Cernigliaro; musiche di Giovanni Sollima; suono di Hubert Westkemper; movimenti di Luna Cenere. Lo spettacolo è una produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, INDA/ Istituto Nazionale del Dramma Antico. In ideale continuità con la Clitennestra che nel 2023 trasse da La casa dei nomi di Colm Toibin, Roberto Andò affronta ora l’Elettra di Sofocle, tragedia imperniata sui temi della vendetta e della complessità dei vincoli familiari. Addolorata e assetata di giustizia per l’omicidio del padre, compiuto dalla madre Clitennestra e dal suo amante Egisto, Elettra, insieme al fratello Oreste, intraprende un cammino di sofferenza in cui non c'è spazio per rimorso o pentimenti e che culminerà in decisioni irrevocabili. «Il palazzo di Micene è un edificio-natura morta», scrive Andò nelle sue note, «un luogo carico di stragi dove il tempo appare immobile, e in cui sembra non accada più nulla. Ad abitarlo, oltre ai viziosi regnanti, è una giovane donna lacera, ossessionata dall’idea della vendetta. Qui Elettra, eroina del dolore, può solo riattivare iterativamente il flusso vertiginoso delle sue emozioni. Mentre cova la vendetta, si strugge per l’orrenda morte del padre, Agamennone, giurando di esservi sempre fedele. Quando esce dal palazzo sfidando gli occhi di chi la controlla, Elettra accenna pochi passi clandestini, sempre gli stessi, poi torna a fermarsi sulla soglia della casa paterna. Schiacciata dalla sofferenza, non può che ripetere il suo lamento ossessivo, evocando una vendetta che è ancora lontana. Noi, che la mettiamo in scena oggi, ipotizziamo che la sua unica consolazione sia la musica. Elettra suona il piano e lascia che la sua pena si sciolga nelle note, che nel suono si raccolga l’ombra della sua anima infelice».
Note di regia
Il palazzo di Micene è un edificio-natura morta, un luogo carico di stragi dove il tempo appare immobile, e in cui sembra non accada più nulla. Ad abitarlo, oltre ai viziosi regnanti, è una giovane donna lacera, ossessionata dall’idea della vendetta. Qui Elettra, eroina del dolore, può solo riattivare iterativamente il flusso vertiginoso delle sue emozioni. Mentre cova la vendetta, si strugge per l’orrenda morte del padre, Agamennone, giurando di esservi sempre fedele. Quando esce dal palazzo sfidando gli occhi di chi la controlla, Elettra accenna pochi passi clandestini, sempre gli stessi, poi torna a fermarsi sulla soglia della casa paterna. Schiacciata dalla sofferenza, non può che ripetere il suo lamento ossessivo, evocando una vendetta che è ancora lontana. Noi, che la mettiamo in scena oggi, ipotizziamo che la sua unica consolazione sia la musica. Elettra suona il piano e lascia che la sua pena si sciolga nelle note, che nel suono si raccolga l’ombra della sua anima infelice. L’Elettra di Sofocle è un’opera audace e sperimenta una nuova drammaturgia del tragico. Se è vero che in ogni tragedia alberga un conflitto che prima o poi deve risolversi, nell’Elettra il problema è delegato interamente alla protagonista, al punto che si potrebbe dire che lei stessa è il problema. Se in Eschilo il problema morale era il matricidio – come può Oreste commettere un simile crimine – e nelle Coefore questo tema era ancora più dominante, nell’Elettra Sofocle supera il dilemma sociale e religioso della giustizia (in Euripide trattato dal punto di vista dell’ethos) e demanda il nervo drammaturgico esclusivamente alla sfera delle emozioni della protagonista. Elettra non agisce, ma soffre e teorizza la propria sofferenza come irrinunciabile. È fedele solo al proprio dolore, e al disegno di vendetta. «[…] nell’Elettra, o nell’Antigone, ci impressiona qualcosa di diverso, forse ancora più impressionante – l’eroismo, la fedeltà». Il saggio in cui Virginia Woolf commenta l’Elettra è On not knowing Greek (1925), e vi si ritrova perfettamente descritta la dimensione claustrofobica nella quale Sofocle costringe il suo personaggio: «La sua Elettra ci sta di fronte come una figura così strettamente legata che può muoversi al massimo un pollice da questa parte, un pollice dall’altra. Ogni movimento perciò dovrà dire il massimo». In effetti, lo spazio dell’Elettra è interamente occupato dalla solitudine della protagonista e rappresenta la scena immutabile di un calvario emotivo. Elettra è l’abitante di un mondo morto, oppressa da un passato di morte e proiettata in un progetto di morte. Elias Canetti ci ha mostrato come la tragedia greca tratta della morte in ogni modo: «La tragedia greca, che non consente distrazione alcuna. La morte – quella del singolo – vi ha ancora tutto il suo peso. Omicidio, suicidio, sepoltura, sepolcro, tutto è lì, esemplare, nudo e senza orpelli; compreso il lamento (che da noi è castrato); compreso il dolore dei colpevoli». E continua a proposito di Elettra: «Elettra vive nella casa del padre assassinato come una mendicante. Da dieci anni non ha in mente altro che pensieri di vendetta. […] Per dieci anni Elettra aspetta che il fratello da lei salvato si faccia uomo. Clitennestra ed Egisto vivono nell’angoscia della vendetta di Oreste. È la morte più antica, una morte indomita in tutte le sue forme, quella di cui questo dramma è colmo. […] In tanto la figura di Elettra è sconvolgente in quanto niente in lei si modifica né mai si modificherà. […] Gli dei c’entrano poco, e comunque soltanto pro forma. Tutto si svolge nell’animo di Elettra». Se è vero che la peculiarità del carattere di quest’eroina è la staticità della sua condizione emotiva, l’unica azione possibile è lo scambio delle emozioni, avvenga esso con sé stessa o con gli altri. L’azione si eclissa a favore del carattere. Come una moderna figura della depressione, Elettra non fa altro che esibire le proprie emozioni, rendendo irrilevante la questione della ragione o del torto del suo comportamento e di quello di Oreste. Come è stato osservato dai più attenti studiosi di quest’opera, l’immaginario di Elettra e il plot della tragedia che Sofocle le consacra, disegnando un paesaggio di disperazione, tracciano un movimento che dalla morte va verso la vita, dalla morte morale di Micene e dalla falsa morte di Oreste alla rinascita di Elettra, di Oreste e del palazzo. Questo movimento implica ovviamente l’assassinio di Clitennestra e Egisto. A quale altro personaggio della tragedia è accostabile Elettra? A nessuno, in effetti. Nell’Antigone Sofocle disegna un paesaggio esistenziale molto diverso da quello di Elettra. Mentre per Antigone il nemico è l’altro, inteso come chi è fuori dalla sua famiglia, Elettra il nemico l’ha dentro la sua famiglia: è la madre. Da qui il tragico che la riguarda e che la rende così triste, e perennemente nell’angoscia. «Come possono figlio-e-figlia, sorella-e-fratello assumere in sé, nella propria vita, il passato, e sentirsene eredi, riconoscendone cioè la potenza? Non continua a essere un macigno per la volontà presente, che ne vincola l’agire, che ne contrasta la libertà? Dal passato non emergono di continuo i dèmoni più neri? È davvero pensabile trasformarne le maledizioni in benedizioni?»: è Massimo Cacciari a porre questa domanda essenziale. E così continua: «La suprema Legge, non scritta, infinitamente superiore a ogni nomos poleos, è per la donna quella della casa, del focolare, dell’oikos, fondata sul legame del sangue. Per suo decreto si appartengono madre e figli, fratello e sorella. Essa vale per Clitemnestra come per Antigone o per Elettra. Solo tra consanguinei si spartisce vita e morte. Fidanzato o marito sono altri. La Legge più antica, precedente e pre-potente ogni scrittura, trova nella donna il suo campione. Eppure, ecco il tragico: proprio nei confronti della donna sembra che tale Legge non si possa o non si voglia più esercitare. Il colpo mortale inferto a Clitemnestra viene “superato”. Quello contro Agamennone punito secondo l’antica Parola. Alla donna, che ci appare sulla scena tanto più forte, una leonessa (Agamennone,1258-1259), ferma nel suo proposito, maturato negli anni, non vien data alcuna “ragione”. E così neanche alla figlia sgozzata, “persona” di Artemide. Invece, al condottiero così facile da persuadere, così freddo al suo ritorno nell’incontro con la sposa, pronto a dividerne il letto con la preda troiana, gli Olimpi concedono vendetta. La sua anima non vagherà mal-contenta per l’Ade come quella del padre di Amleto». A modo suo, anche Elettra è una disobbediente, ma lo è attraverso l’arma travolgente delle emozioni, e sempre nell’accezione arcaica delle potenze femminee che gli dei del mondo antico cercarono di tenere a bada. La tragedia di Elettra è nella inamovibile fissità della sua mente – qualcuno l’ha accostata a un personaggio da western – e nella consapevolezza che la costringe ad agire in una situazione impossibile. In questo senso, il finale dell’opera ci lascia sorpresi e spiazzati. A vendetta compiuta, ritrovato Oreste, la nostra protagonista sembra essere ancora terribilmente sola. Per quanto il coro ci rassicuri che anche questa volta il dolore è stato il viatico per la conoscenza e la libertà, Elettra, in scena col cadavere della madre, sembra ancora chiusa nel suo mistero doloroso.
Roberto Andò
durata spettacolo 1h e 45’