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TEATRO GIUSEPPE VERDI DI SALERNO: NORMA Musica di Vincenzo Bellini

Data pubblicazione: 23-04-2025
 

“Norma”: la metafisica del ‘tragico’ in un’opera in bilico tra classico e romantico.
Bellini stesso definì il personaggio di Norma “enciclopedico” a indicare la ricchezza di tratti e sfumature psicologiche che offrirono al musicista la possibilità di impiegare, nell’opera omonima di cui è protagonista, una serie di mezzi espressivi e vocali che contribuirono a farne il suo capolavoro. L’opera fu composta per aprire la stagione del Teatro alla Scala di Milano del 1831 e fu rappresentata di fatto il 26 dicembre di quell’anno assurgendo ben presto a pietra miliare del melodramma italiano dell’Ottocento così com’è incentrata su quei temi romantici che di lì a poco avrebbero invaso la scena teatrale. Essi sono la ribellione verso l’oppressore, la forza della passione amorosa a dispetto dell’ordine costituito, il conflitto in amore, il desiderio di vendetta e l’odio, qui mitigato e dissolto da un superiore sentimento di pietas che avvolge il tutto. La cornice del libretto di ambientazione romana è tuttavia ancora conservatrice ponendosi sulla scia di uno stile postgluckiano penetrato nel campo della tragédie lyrique. (....)  L’originalità poi del libretto e dell’opera belliniana che viene in tal modo a sottrarsi sia al filone classico metastasiano che a quello della tragédie lyrique in cui rientrava l’opera di Spontini, è legata all’alone di charitas che avvolge la vicenda, per cui Norma non uccide i figli come la “barbara” Medea quando scopre il tradimento di Pollione, ma arriva addirittura a sacrificarsi per salvare il suo amato e la sua nuova donna. È a quel punto che nella grandezza del suo gesto ella riconquista Pollione che sceglie di salire sul rogo con lei in una morte che diventa trasfigurazione e trionfo dell’amore. La scelta di un tale personaggio dovette essere verosimilmente condizionata dall’interprete che Bellini avrebbe avuto a disposizione, la grande Giuditta Pasta. Di più e di diverso, rispetto alla Norma di Soumet che compie l’infanticidio, quella di Bellini presenta un conflitto interiore in chiave patetica tra il desiderio di vendetta e il sentimento di madre oltre che di donna che si eleva alla fine al di sopra di qualsiasi meschina rivalsa per far predominare l’amore in una cosciente revisione di sé. In tal modo si passa dal piano eroico del mito a quello soggettivo della trepidazione interiore. Eppure l’attrattiva di quest’opera anche a livello musicale è proprio questo suo essere in bilico tra il classicicismo, lo stile impero comune a tante opere di stampo classico del periodo napoletano in cui si era formato Bellini, fortemente appoggiate dal suo maestro Zingarelli cui erano invise infatti le innovazioni del coevo stile rossiniano, e l’affermazione di un gusto romantico che andava verso il canto spianato e fiorito allo stesso tempo, in direzione  del valore assoluto della melodia e di un compiacimento per il suono in sé in tempi dilatati e contemplativi, attraverso la rottura delle convenzioni formali classiche. Vocalmente basti pensare da una parte al declamato di Pollione nella cavatina iniziale che guarda al passato, a una precisa cifra sobria dell’opera voluta e salvaguardata da Bellini di contro allo stile patetico imperante nelle opere degli anni Trenta, e dall’altra parte i tratti pienamente romantici e l’invenzione prettamente belliniana del crescendo della melodia consistente in un andamento a terrazze dell’ascesa della melodia verso l’acuto sostanziato dall’intensificarsi della progressione armonica e dalla crescita della sonorità orchestrale, tuttavia non nel senso elettrizzante di Rossini, ma piuttosto procedendo a spirale fino a raggiungere un’estasi sonora da spegnere magari immediatamente in un piano. a morte. (...)
Due momenti esemplari sono il brano “Casta diva” l’invocazione che Norma rivolge alla luna nella scena quarta del primo atto, subito dopo la sua apparizione, in cui la  melodia con un ampio impiego della sincope protrae al massimo il raggiungimento del suo acme, e la scena conclusiva del finale secondo, laddove nella sezione del Mi maggiore la progressione verso l’acuto avviene per battute e battute utilizzando le dissonanze a scopo propulsivo e facendo crescere spasmodicamente la tensione per poi ripiegare sul pianissimo e ripartire daccapo.  Al di là della fama di Bellini quale abile creatore della melodia, va osservata la sua capacità di costruzione della struttura drammatica dell’opera. Egli riesce a mandare avanti la vicenda all’interno di organismi scenico-musicali ampi: fino all’ingresso di Norma l’opera è saldamente costruita dalla Sinfonia attraverso l’Introduzione, la cavatina di Pollione cui si connettono il Coro e cavatina di Norma in un blocco unitario percorso da ricorsi tematici e tonali, o ancora il duetto tra Norma e Adalgisa nel primo atto confluisce nel terzetto con Pollione dando luogo ad un organismo coerente. Allo stesso tempo come fa notare l’autore: «Il finale intero del secondo atto, che comincia dall’inno di guerra in poi» costituisce un blocco organico sebbene formato da più sezioni susseguentesi in uno stringato ritmo drammatico. In molti casi i numeri si intrecciano gli uni con gli altri sfumando al massimo il contrasto tra le sezioni. I modelli erano soprattutto nelle ultime opere rossiniane ed in quelle del filone francese neogluckiano conosciute a Napoli. Sulla costruzione drammatica gioca infine il dialettico intersecarsi del pubblico e privato. Il piano privato delle passioni e sentimenti dei personaggi si intreccia in maniera mirabile con lo sfondo collettivo delle vicende di un popolo oppresso, ne risultano influenzate le stesse convenzioni formali del melodramma per cui il personaggio di Norma spesso appare in scene in cui intervengono gli altri personaggi e il coro. Un esempio è offerto anche nel momento del famoso “Casta diva” in cui l’accorata invocazione all’astro celeste affinché riesca a placare i cuori ardenti desiderosi di riscatto e di guerra è sostenuta dalla coralità. Le sacerdotesse e il popolo pregano con lei in un’atmosfera incantata su cui sovrasta una luna luminosissima che è sì espressione di ciò che trascende l’uomo, ma è anche la luna misteriosa, romantica, leopardiana a cui si rivolgono interrogativi. (...) Il finale è il momento del massimo compimento del personaggio e dell’opera così com’è fondata sull’intersecarsi di pubblico e privato, collettivo e intimo. L’intreccio di queste due dimensioni viene suggellato al massimo attraverso il sacrificio e la catarsi consistente nello sciogliersi del dramma soggettivo nel pubblico. Vi partecipano ritualmente tutti in una sorta di liberazione. Nella musica la vicenda si svolge nell’acquisito procedimento a terrazze di ascesa verso l’acuto laddove le soste e le riprese dell’andamento in progress traducono la perfetta manifestazione della tensione patetica. Schopenhauer nel Mondo come volontà e rappresentazione indicava nella parte finale dell’opera il raggiungimento di una sorta di metafisica della dimensione tragica con osservazioni che val la pena citare, come già segnalato da Lanza Tomasi: «[…]raramente l’effetto genuinamente tragico della catarsi, quello che viene conseguito mediante la rassegnazione e la sublimazione spirituale dei personaggi è stato così ben motivato e trasparentemente espresso come nell’opera Norma, quando si arriva al duetto “Qual cor tradisti, qual cor perdesti”. Qui il mutamento di indirizzo della volontà vien chiaramente rivelato dall’improvvisa serenità che pervade la musica. […] questo pezzo è in primo luogo, a prescindere dall’eccellenza della musica come pure dall’espressione verbale, che non si scosta da quella di un libretto, un vero modello, e di collocazione tragica dei materiali, e dell’incidere tragico dell’azione, e di sviluppo tragico in sé stesso, un modello allo stesso tempo di efficacia che si leva al di sopra del mondo, dell’efficacia dello sviluppo tragico sui sentimenti dei personaggi […]».   
D’altronde già Carlo Ritorni a breve distanza dalla prima alla Scala aveva visto in Norma «l’esemplare della vera tragedia musicale» spogliata di qualsiasi ornamento musicale “antidrammatico”, cogliendone appunto l’essenza di purezza classica cui mirò Bellini. E probabilmente a questa mescolanza di classicità e romanticismo è legato il fascino di tale capolavoro di cui rimangono impressi pur nella ricchezza musicale complessiva singoli momenti icastici di asciutta drammaticità che sembrano già guardare verso l’espressionismo.  Rosanna Di Giuseppe
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NORMA
Musica di Vincenzo Bellini

Direttore d’Orchestra  Michael Balke
Regia  Sarah Schinasi
Maestro del Coro  Francesco Aliberti
Scene e Costumi  Alfredo Troisi

Pollione  Mert Süngü
Oroveso  Carlo Striuli
Norma  Gilda Fiume
Adalgisa  Francesca Di Sauro
Clotilde  Miriam Tufano
Flavio  Francesco Pittari

ORCHESTRA FILARMONICA SALERNITANA “GIUSEPPE VERDI”
CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI SALERNO