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Pinter Party è uno spettacolo duro ma illuminante. Da non perdere

Data pubblicazione: 15-04-2024
 
foto Ivan Nocera

Tra gli spettacoli più attesi della stagione del Teatro San Ferdinando, è andato in scena Pinter Party. La pièce comprende in un’unica partitura tre testi del grande drammaturgo, regista, scrittore e attore britannico Harold Pinter scomparso nel 2008, ovvero Il bicchiere della staffa del 1984, Il linguaggio della montagna del 1988 e Party Time del 1991, intervallati da brani tratti dal discorso dell’autore alla cerimonia del Premio Nobel per la Letteratura assegnatogli nel 2005. Lo spettacolo è interpretato da Lino Musella, che è anche regista e ideatore del progetto, e da Paolo Mazzarelli, Betti Pedrazzi, Totò Onnis, Eva Cambiale, Gennaro Di Biase, Dario Iubatti, Ivana Maione, Dalal Suleiman e, in video, Matteo Bugno. Le scene sono di Paola Castrignanò, i costumi di Aurora Damanti, le musiche originali e il disegno sonoro di Luca Canciello, il disegno luci di Pietro Sperduti, i video di Matteo Delbò, la coreografia di Nyko Piscopo.
L’idea parte da lontano. Musella racconta che già a una prima lettura dei tre brevi atti unici gli era sembrato che ci fosse tra di essi un qualche collegamento, un dialogo e, partendo da questa idea, già nel 1999 presentò per l’esame d’ammissione al corso di Regia alla Civica Paolo Grassi di Milano un progetto che metteva insieme le riflessioni che dai tre lavori sembravano scaturire. In tutti e tre, osserva Musella, “la condizione dei popoli oppressi è mostrata attraverso la rappresentazione degli oppressori.”
Così, a partire da “Il bicchiere della staffa” troviamo l’oppressore di turno che sottopone a un interrogatorio una coppia di intellettuali trentenni e il loro bambino di sette anni. Non si vedono atti di violenza fisica in scena, ma quanta violenza emerge dalle parole “asciutte, apparentemente civili, a volte cordiali” che sottendono “un sadismo sottile, insostenibile, osceno.” Solo due sedie ai lati opposti del palco a rimarcare la distanza tra l’oppressore e l’oppresso “perché la tortura non avviene per forza in uno sgabuzzino, può aver luogo anche in uno stadio cileno” osserva il regista.
Il linguaggio della montagna propone una forma di oppressione e di violenza ancora più sottile. Siamo in un carcere in cui l’oppressore arriva a negare l’uso della propria lingua, definendola montanara, a coloro che non provengono dalla capitale in cui si esercita il potere. Un luogo di repressione, dove ufficiali in uniforme abusano di donne che aspettano ore e ore nella neve per vedere i loro parenti rinchiusi e torturati, minacciate e morse da cani feroci. Per il terzo testo, Party time, Musella ha ideato una festa in maschera in cui tutti i partecipanti indossano costumi da supereroi. È forse il più duro tra gli atti unici e la realizzazione, pur se la più colorata e a prima vista meno tesa dei testi precedenti, si rivela la più dolorosa, la più angosciante per il ritmo musicale che incalza, l’ossessiva ricerca di Jimmy, l’ipocrisia che sembra scendere come un velo sui gesti e le parole di tutti. Nel finale la seconda parte del discorso in occasione del Nobel in cui Pinter - per dirla ancora con le incisive parole di Lino Musella – “non allude più, non le manda a dire, fa nomi, cognomi e indirizzi”
Lo spettacolo è un pugno nello stomaco perché mette in risalto quelle verità o quei sospetti irritanti che nella vita di tutti i giorni cerchiamo di ignorare. Ma è uno spettacolo bellissimo, illuminante, di quelli che aprono la mente. È il Teatro e fa ciò che il teatro dovrebbe fare sempre. C’è una coerenza ammirevole tra regia, luci, scene, costumi, filmati, coreografie. Un cast di altissimo livello offre una recitazione misurata, piena, senza sbavature. Lino Musella, poi, è un attore straordinario: domina la scena anche stando seduto, immobile e senza pronunciare una parola.
Da non perdere.

Valeria Rubinacci